Conoscenza

Fin dai tempi più remoti l'uomo si è interrogato sulle modalità che gli permettono di conoscere se stesso, gli altri e il mondo esterno. Le risposte date a questi interrogativi sono andate a formare, dai tempi dell'antica Grecia a oggi, la storia dei modi con cui ci si è rappresentati i processi di conoscenza. Abbiamo così una storia «culturale» della conoscenza, una storia dei modi con cui le varie culture si sono rappresentate la capacità umana di conoscere se stessi, la natura e gli altri. Viceversa, dal punto di vista della storia naturale, dell'uomo come uno degli elementi della natura, il cervello non è mutato da migliaia di anni, così come sono rimasti immutati gli apparati visivi e acustici per la percezione del mondo esterno. Le culture del passato hanno dato per scontato che ci fosse qualcosa nel nostro corpo, diverso dal corpo stesso, in grado di attivare i processi di conoscenza. Ancor oggi, la distinzione tra mente e corpo affiora continuamente nei discorsi di tutti i giorni, cioè in quella che si è soliti chiamare «psicologia ingenua». Ad esempio, quando ci informiamo sul benessere altrui, possiamo riferirci sia allo stato d'animo di una persona sia ai suoi acciacchi fisici. Spesso teniamo separati questi due aspetti, anche se sappiamo che le due sfere possono interagire.

Questa separazione ha dato luogo, nella tradizione occidentale, a una lunga serie di dibattiti filosofici. In passato la distinzione non era tra mente e corpo, ma tra corpo e anima. Tale separazione, in varie forme, è alla base della concezione dell'uomo propria delle religioni cristiane e la ritroviamo anche nella tradizione musulmana. Il grande studioso Ibn 'Arabi, nel XIII secolo, scrive che Dio ha creato Adamo specchiandosi in lui e gli ha attribuito tutte le sue capacità mentali e così noi ci possiamo immaginare Dio nella nostra anima (letteralmente: «tra i nostri occhi»). Pensare è immaginarsi le cose con gli occhi della mente. L'anima è un'entità così complicata e misteriosa che viene ritenuta un dono di Dio: noi possiamo pensare a Dio proprio perché abbiamo l'anima.

Nel corso del '600, Cartesio offre una soluzione al problema della conoscenza destinata a caratterizzare la modernità. Cartesio separa il corpo, e cioè la res extema (la materia che ha un'estensione), dallo spirito (res cogitarti), che pensa ed è privo di estensione. Corpo e mente interagiscono a livello di ghiandola pineale o epifisi, all'interno della scatola cranica. Il punto di vista di Cartesio permette un enorme sviluppo delle ricerche anatomiche e fisiologiche: il corpo, la res estensa, entra a far parte della natura. Questa concezione verrà accettata anche dalla Chiesa, che si riserverà come territorio autonomo lo studio dell'anima. Il passaggio fondamentale, dopo Cartesio, consisterà nel domandarsi non quale sia la natura e l'origine dei processi di conoscenza, ma come funzionino. Questo cambiamento di prospettiva renderà via via meno rilevante il problema della localizzazione nel corpo delle funzioni mentali. Ci si accorgerà, infatti, che è possibile studiare i processi di conoscenza a prescindere dalle loro basi materiali. In parole povere, potremmo dire che non ha più importanza sapere dov'è la mente, perché ci si è resi conto che i processi di conoscenza non sono altro che un livello di descrizione più astratto di una serie di capacità proprie d'ogni essere naturale.

Con quale metodo studiare i processi di conoscenza? I filosofi pensavano che il metodo da usare fosse l'introspezione: l'esame dei nostri stati mentali condotto da noi stessi, guardandoci dentro. Questo è il metodo implicitamente usato dalla psicologia del senso comune, da tutti noi quando vogliamo cercare di conoscere noi stessi: siamo veramente innamorati di quella persona? come mai ci dimentichiamo sempre alcune cose ? Questo metodo continua a venire usato nel corso della vita quotidiana e anche, in forme più sofisticate, dagli psicoanalisti che ascoltano i resoconti della vita mentale dei propri pazienti. E tuttavia non viene più usato come metodo scientifico, in quanto è inaffidabile, dato che molti contenuti mentali non affiorano alla coscienza. Oggi il funzionamento dei processi di conoscenza viene analizzato tramite esperimenti, simulazioni oppure analisi comparata delle basi neurofisiologiche. Questi tre metodi non sono in alternativa, al contrario si integrano vicendevolmente.

Quando la psicologia nasce come scienza autonoma, alla fine dell'800, i primi studiosi cercheranno-inizialmente di affinare le tecniche introspettive ma non di sostituirle con il metodo sperimentale. W. Wundt, il fondatore della psicologia sperimentale, lo farà addestrando le persone da impiegare nei suoi esperimenti sulla base del presupposto che una persona potesse imparare a descrivere fedelmente i suoi stati interni. S. Freud lo farà cercando di costruire un codice che permettesse a lui, e poi agli stessi pazienti, di capire cose di cui lo stesso paziente non era consapevole. La guarigione, in estrema sintesi, consisteva nel capire la propria vita mentale interna che, se ignota, causava sofferenza.

Si crede comunemente che la psicologia, come scienza della conoscenza, nasca staccandosi dalla filosofia grazie all'accettazione del metodo sperimentale che tanto successo aveva avuto nelle altre scienze della natura. Questa è una semplificazione. Proprio alla metà dell'800, e precisamente il 12 febbraio del 1850, sette senatori degli Stati Uniti invitarono il sedicente psicologo Dods a parlare alla Camera dei Rappresentanti. Dods presentò la psicologia come una scienza dell'anima e non come una scienza sperimentale delle capacità mentali. Solo con la generazione di studiosi di fine '800 assistiamo alla creazione di laboratori di psicologia. Studiosi come Dods non erano considerati dai contemporanei come i creatori di una nuova disciplina, ma come degli innovatori che trasformavano la filosofia e la fisiologia per creare una scienza dell'anima.

Le scienze della conoscenza, le scienze cognitive odierne, costituiscono una disciplina molto più recente. Esse sono il frutto della rivoluzione darwiniana, dell'abbandono cioè di ogni ipotesi metafisica e spiritualista. Prima che si affermasse nei circoli scientifici la prospettiva darwiniana, e cioè la completa naturalizzazione dell'uomo, le prospettive filosofiche si intrecciavano con il lavoro dei primi psicologi. Ad esempio Wundt, il fondatore del primo laboratorio di psicologia sperimentale, s'interessava di etica e di metafisica. W. James, considerato il pioniere della psicologia americana, si trasferì nel 1870 dal dipartimento di Fisiologia a quello di Filosofia di Harvard. Th. Ribot, in Francia, si occupa della filosofia di Schopenhauer oltre che di neurologia e di psicologia sperimentale. In Belgio questi approcci vengono coniugati con il tomismo da parte di D.-J. Mercier. Lo stesso Ch. Peirce, che negli Stati Uniti fu il primo a condurre esperimenti di psicofisica, offri importanti contributi alla logica e alla filosofia, quelli per cui oggi è ricordato. Lo studio dei processi di conoscenza, storicamente, va quindi concepito come il risultato di un distacco delle scienze cognitive da un precedente flusso unitario, in cui gli esperimenti di psicofisica si mescolavano a pretese filosofiche. Solo alla fine dell'800 questo flusso unitario inizierà a scindersi per dar luogo, alla fine del secolo scorso, a due discipline separate: la filosofia della mente e le scienze della conoscenza, più spesso chiamate scienze cognitive.

Il contributo fondamentale a questa separazione venne dato non tanto dall'affermarsi del metodo sperimentale come tecnica per studiare la mente, ma dalla naturalizzazione dei processi di conoscenza a seguito del diffondersi delle idee di Ch. Darwin. Le tesi di Darwin, e la loro lenta ma progressiva diffusione e accettazione, costituiscono un punto di non ritorno nella storia dello studio scientifico e naturalistico dei processi di conoscenza. Per la prima volta l'uomo dispone di una teoria che colloca i processi di conoscenza non al di fuori o al di sopra della natura, ma al suo interno, individuando nell'adattamento all'ambiente la loro ragion d'essere (è il miglior adattamento volto alla sopravvivenza che premia alcuni membri di una specie). Potremmo arrivare a dire che con Darwin inizia una storia scientifica dei processi di conoscenza che sfocia nei lavori di psicologi, filosofi della mente, linguisti, logici, informatici, insomma degli odierni scienziati cognitivi.

Proprio dal punto di vista del funzionamento effettivo della mente umana non dobbiamo stupirci troppo della difficoltà ad accettare una teoria come quella darwiniana, in cui il caso gioca un ruolo così rilevante. È il caso che genera le variazioni della specie su cui interviene la selezione ambientale. Ricorrere al caso come fattore esplicativo appare una sorta di non-spiegazione: dire che qualcosa è capitato «per caso» vuol dire che non si sa perché sia capitato. Non solo la psicologia ingenua, ma tutta la la conoscenza, fin dalle culture primitive, tende a una visione della realtà in cui il caso non riveste alcun ruolo. L'uomo primitivo, pur di inventare delle cause ed escludere il caso nella spiegazione di quel che gli capitava, ha attribuito volontà e facoltà mentali non solo a presunti esseri superiori, ma anche agli eventi naturali. Ancor oggi, persone colte sono inclini ad attribuire memoria al lancio di un dado, di una moneta e all'estrazione del lotto. Se un numero non esce da molti giorni si pensa che la ruota si ricordi di esserselo dimenticato e che quindi tenda a correggersi. Sono gli ultimi cascami di una visione animistica del mondo. Se vengono prese in considerazione queste due possibili sequenze di otto lanci di una moneta: 1) testa-croce-testa-croce-testa-cro-ce-testa-croce; 2) testa-testa-testa-testa-cro-ce-croce-croce-croce, molti diranno che la sequenza 1 è più probabile della 2. Da un punto di vista ingenuo, il caso viene considerato come un processo di autocorrezione, tale per cui una deviazione in una direzione dovrebbe indurre una deviazione in direzione opposta, riequilibrando così la serie. Noi ci comportiamo come se attribuissimo alla roulette una memoria in grado di ricordare: dopo che sono usciti molti rossi uno dopo l'altro, bisogna far uscire un nero per riequilibrare la serie. Ma è la nostra memoria che si ricorda dei rossi e non la roulette.

Dopo Darwin, la tappa più rilevante è il 1957, quando N. Chomsky pubblica un libro che legittima un approccio allo studio della conoscenza come sistema dotato di regole. Chomsky parte dalla nozione di «grammatica»: imparare la grammatica di una lingua L vuol dire saper distinguere le sequenze grammaticali, che sono frasi corrette in L, da quelle che non sono grammaticali, e cioè le frasi scorrette (quelle che un parlante di L non usa). Una grammatica consiste dunque in un meccanismo che genera, cioè produce, tutte le sequenze grammaticali della lingua e nessuna sequenza non grammaticale. Generare una frase significa saper specificare l'insieme delle regole attraverso cui si è ottenuta la struttura della frase stessa. Come possiamo imparare una grammatica? Chomsky prende in considerazione due modelli e dimostra che il primo, di natura associazionista, non è capace di render conto del nostro apprendimento del linguaggio. Il modello associazionista è un modello probabilistico. Supponiamo di avere una macchina che può passare da uno stato a un altro, producendo ogni volta una parola. La macchina parte da uno stato iniziale, procede attraverso una sequenza di stati producendo ogni volta una parola, e finisce nello stato finale quando ha terminato una frase. Ogni linguaggio che può essere prodotto da una macchina del genere è un linguaggio a stati finiti. Il problema posto da Chomsky è il seguente: il nostro apprendimento e uso del linguaggio può essere simulato con una macchina di questo tipo? Il parlante funziona come una macchina a stati finiti? Se le cose stessero così, un parlante imparerebbe la struttura probabilistica di una lingua: per esempio, saprebbe con quale probabilità a un dato articolo segue uno specifico nome, e poi un aggettivo, un verbo, e così via. Grazie a queste conoscenze il parlante potrebbe formare le frasi corrette ed escludere quelle scorrette. Se il meccanismo d'apprendimento fosse associativo, la conoscenza di una lingua consisterebbe nel conoscere la struttura probabilistica della lingua grazie alla continua esposizione a stimoli linguistici, fin dalla nascita.

Chomsky mostra che un modello associazionista non è capace di render conto della struttura gerarchica di linguaggi naturali come l'italiano o l'inglese. Per esempio, non riesce a inserire frasi (subordinate) all'interno di altre frasi (principali). Consideriamo la frase «che viene scritta nell'estate», da inserirsi dentro la frase: «La voce di psicologia... rovina le vacanze dell'autore». E’ evidente che la probabilità di legare, in termini probabilistici, la parola «estate» con la parola «rovina» può essere bassissima anche se, nella frase completa, queste due parole vengono una dopo l'altra.

Il modello chomskyano è stato confermato da esperimenti e da osservazioni sull'apprendimento del linguaggio. Oggi si integra con le tecniche di simulazione, che si sono affiancate agli esperimenti come modalità di analisi della formazione delle conoscenze sia in sistemi naturali che artificiali. Queste sono state rese possibili dall'invenzione del computer, un sistema per meccanizzare le conoscenze (Pratt, 1987). L'esempio più di successo delle tecniche simulative è costituito dai modelli connessionisti. Si tratta di sistemi costituiti da miriadi di unità corrispondenti ai neuroni del cervello (di qui anche il termine «reti neurali»). Queste unità sono collegate alle altre unità in modo eccitatorio o inibitorio. In funzione della forza delle soglie di eccitazione e inibizione, il sistema «impara» a produrre le risposte desiderate.

L'apprendimento dipende dal cambiamento progressivo della forza delle connessioni tra le varie unità (di qui il termine «connessionismo»). L'intervento umano si limita ad alimentare il sistema indicando ogni volta quale sarebbe la risposta desiderata. Dato che per ogni input il sistema viene informato di quello che dovrebbe essere l'output, ha luogo un'autocorrezione, prova dopo prova. Abbiamo così correzioni all'indietro del sistema, in quanto l'output retroagisce sul funzionamento del sistema. Questo si perfeziona via via, alla luce delle sue stesse prestazioni, un po' come quando impariamo a sciare e correggiamo i nostri difetti guardando gli errori in una videoregistrazione (di qui il termine backpropagation, propagazione all'indietro dell'errore). Dopo un numero anche elevatissimo di prove, il sistema, che gira su un computer, impara a fare meglio dell'uomo nei compiti più svariati: riconoscimento automatico di firme, identificazione di voci o di visi, modelli dell'andamento dei prezzi sui mercati (per esempio, di borsa), e così via (Johnson-Laird, 1988). Come un cercatore che scava in una miniera, il computer è programmato per esplorare masse enormi di dati e, scovando le correlazioni, individua le regole che producono le risposte corrette (quelle, cioè, desiderate dall'uomo che lo ha programmato e lo alimenta).

Oggi si può quindi rivisitare un tema classico della filosofia: quali conoscenze sono innate e quali acquisite? Ha senso, per esempio, domandarsi che cosa è innato e che cosa è acquisito in un computer, mentre si scrive utilizzando un programma? Solo in un senso «metaforico»: è forse innato il programma di scrittura e sono acquisiti i battiti sulla tastiera? Il prodotto finale discende dall'interazione tra questi due processi, entrambi controllati dall'uomo. E l'uomo chi lo ha controllato? La sua storia naturale.

Lo studio dei processi di conoscenza si muove oggi su tre fronti collegati: capire le basi neurofisiologiche che producono i processi cognitivi, simularli e, infine, reduplicarli in sistemi artificiali. Paradossalmente, sono le lesioni dell'organismo, cioè i guasti, che possono essere illuminanti e chiarificatori. Se una lesione localizzata in una parte della corteccia cerebrale si associa alla compromissione di una specifica conoscenza, allora è probabile che sia quella porzione della corteccia ad avere un ruolo nella produzione di quell'attività mentale. Per procedere in questo modo è indispensabile avere modelli assai dettagliati del funzionamento della mente, in grado di consentire l'individuazione di quelli che abbiamo chiamato «moduli». Una volta che abbiamo costruito un modello preciso del processo, possiamo collegare ciò che non funziona alla lesione cerebrale.

Negli ultimi anni, a queste metodologie centrate sullo studio delle conseguenze delle lesioni, si sono affiancate le tecniche di neuro-imaging, come la tomografia a emissione di positroni e la risonanza magnetica funzionale. Si tratta di tecnologie che permettono di «vedere» il cervello mentre lavora e di isolare così la parte deputata a una specifica funzione cognitiva, esaminando i cervelli di persone impegnate in un dato compito. Queste tecniche, rese popolari grazie alla divulgazione giornalistica, permettono di rappresentare modelli visivi delle diverse aree del cervello e di attribuirvi funzioni particolari nell'elaborazione delle conoscenze. In realtà le cose non sono semplici, dato che molti aspetti del funzionamento della mente sono associati all'attivazione di circuiti complessi, formati da aree connesse. L'utilizzo congiunto della simulazione su computer e del controllo sperimentale ha permesso di riprendere e di risolvere problemi ereditati dalla tradizione filosofica. Ad esempio, è stato possibile capire come funzionano le conoscenze di natura probabilistica. E' anche possibile capire come e quando teniamo nella mente conoscenze che non sono coerenti l'una con l'altra, che cosa succede quando ce ne accorgiamo e come facciamo a risolvere le incoerenze. Infine va ricordato il campo di studi che collega le conoscenze di una mente individuale a quella grande mente collettiva che ritroviamo in varie forme nel mondo contemporaneo: nella rete Internet, nelle grandi organizzazioni e aziende, in tutti i sistemi complessi. Ad esempio il tema classico della creatività intesa come produzione di conoscenze nuove può oggi venire collegato a quella forma di creatività collettiva che è l'innovazione.

Lo studio delle conoscenze individuali e collettive e del modo con cui queste vengono rappresentate è dunque al cuore non solo delle scienze cognitive, ma di molte forme di innovazione tecnologica che hanno cambiato i nostri modi di vita. È la capacità di trasformare le conoscenze umane in forme d'intelligenza artificiale - dalla televisione al cellulare fino al computer e la rete - che ha rivoluzionato i nostri modi di interagire con le macchine e con altri esseri umani. Il mondo è diventato più piccolo e uniforme grazie a queste innovazioni tecnologiche.

PAOLO LEGRENZI